Contributi di Giuseppe Lumia sulle Stragi per approfondire le questioni ancora aperte./2


 Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-03767 Atto n. 3-03767 Pubblicato il 23 maggio 2017, nella seduta n. 827 LUMIA - Al Ministro dell'interno. - Premesso che secondo quanto risulta all'interrogante: il 23 maggio 1992 si consumò la terribile strage di Capaci dove furono colpiti Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Insieme ai due magistrati caddero gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani; oggi si è a 25 anni di distanza da quel tragico evento. Molto è stato fatto, numerose indagini si sono susseguite e così anche diversi processi. Sono state svelate molte responsabilità interne a "Cosa nostra", ma rimangono insoluti ancora tutta una serie di punti oscuri, che dovrebbero essere ancora indagati, sia sul piano penale, sul piano della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere e sul piano delle responsabilità istituzionali e politiche; è opportuno partire dal maxiprocesso di Palermo, che dall'inizio degli anni '80 sino al 1992, dissolse 3 cardini, nei quali si era consolidato il potere collusivo-mafioso: la segretezza, l'omertà e l'impunità. Con il maxiprocesso si ottenne per la prima volta un risultato straordinario: vennero a galla le responsabilità penali dei principali boss, grazie all'operato del pool antimafia portato avanti, prima, da Antonino Caponnetto e, successivamente, da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dagli altri magistrati che ne presero parte; tuttavia, l'individuazione delle responsabilità si è bloccata di fronte a coloro che vengono definiti mandanti esterni, ovvero i responsabili degli apparati politici ed istituzionali; sono vivi e del tutto attuali gli interrogativi posti dalla Commissione parlamentare Antimafia nella relazione conclusiva di minoranza del 2006, nella quale sono emersi numerosi elementi che evidenziano rapporti ambigui fra dinamiche mafiose e circuiti istituzionali: "Perché non è stata trovata più traccia dei diari del magistrato? (Così come è scomparsa l'agenda del giudice Paolo Borsellino). Quale significato aveva quel bigliettino ritrovato sul luogo dell'eccidio, a circa cento metri dal cratere dell'esplosione di Capaci: «Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2. GUS, via Selci numero 6, via Pacinotti». E di seguito il numero di un cellulare, 0337/806133. È rimasta senza risposta la domanda del pubblico ministero Luca Tescaroli: «Come mai un biglietto con un'annotazione relativa al nome e alla sede di una società del Sisde, nonché ad un numero telefonico di un funzionario appartenente alla medesima struttura siano stati rinvenuti in quel luogo proprio nella immediatezza dell'eccidio? Quando, da chi e per quale motivo è stato fatto ritrovare in quel sito? ». La «Gus», Gestione unificata servizi, è una società di copertura dei Servizi segreti. Il funzionario che aveva in uso quel cellulare è ritenuto vicino a Bruno Contrada, l'ex numero 3 del Sisde finito in carcere per presunte collusioni mafiose. Via In Selci è la sede della società Gus, a Roma, mentre in via Pacinotti, a Palermo, c'è la Telecom. Poi, quel «guasto numero 2» è il codice di errore nel funzionamento del telefonino, che segnala la probabilità di una clonazione in atto. Anche gli stragisti di Capaci utilizzarono cellulari clonati. Ma questo dato, all'epoca, lo sapevano solo i diretti interessati"; la convergenza di interessi esterni in eventi così importanti della vita nazionale non appare solo un'ipotesi, ma impone un doveroso concreto approfondimento; nell'intervento del firmatario del presente atto, allegato alla relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia del 2013, è stata avvertita la necessità di delineare un quadro più completo: "Quella fase stragista di cosa nostra aveva avuto in realtà un'anticipazione nel 1989, con l'attentato compiuto all'Addaura il 20 giugno di quell'anno, ai danni del dottor Giovanni Falcone e dei magistrati elvetici Carla Del Ponte e Claudio Lehmann. La delegazione elvetica guidata da Carla Del Ponte si occupava del riciclaggio del denaro di cosa nostra in esito a una proficua collaborazione che si era instaurata già da tempo con l'attività di Giovanni Falcone. Era stato proprio nell'ambito di tale collaborazione fra il magistrato palermitano, in quel momento in servizio alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, che nel febbraio 1989 a Lugano, nel corso dell'audizione dell'imprenditore bresciano Oliviero Tognoli, arrestato per il riciclaggio dei proventi dei traffici illeciti di cosa nostra oggetto dell'indagine denominata «Pizza Connection», Giovanni Falcone e Carla Del Ponte avevano acquisito informalmente da Tognoli la notizia che il dottor Bruno Contrada si era reso responsabile anni prima di una fuga di notizie che aveva consentito allo stesso Tognoli di sfuggire all'arresto. Tognoli si era poi rifiutato di riferire ufficialmente a verbale il nome del funzionario di polizia. L'attentato all'Addaura nei confronti di Giovanni Falcone e dei magistrati elvetici, orchestrato secondo lo stesso Falcone da «menti raffinatissime», è stato oggetto negli anni scorsi, dopo un primo processo giunto a condanne definitive per mandanti ed esecutori intranei a cosa nostra, delle rivelazioni, ritenute credibili da parte dei magistrati, del collaboratore di giustizia Angelo Fontana, che ha ribadito il coinvolgimento nella fase esecutiva dell'attentato di mafiosi appartenenti alle famiglie dell'Acquasanta, guidata dai Galatolo, e di Resuttana, guidata dai Madonia. Sulla scorta delle dichiarazioni rese da Angelo Fontana, in esito all'incidente probatorio eseguito dall'autorità giudiziaria di Caltanissetta, è stato identificato, sui reperti sequestrati in prossimità del luogo dell'attentato, il profilo genetico del mafioso Angelo Galatolo del 1966. L'attentato presso l'abitazione di vacanza di Giovanni Falcone all'Addaura era stato preceduto, poche settimane prima, dalla divulgazione di cinque lettere anonime con le quali l'autore aveva provveduto a spargere veleni, tra gli altri, contro Giovanni Falcone al riguardo del rientro in Sicilia del collaboratore di giustizia Salvatore Contorno e del suo successivo arresto. Le lettere del «corvo» sono rimaste fino a oggi prive di responsabili compiutamente identificati. Di certo può dirsi però che la campagna di veleni rivolta contro Giovanni Falcone rientrò inequivocabilmente nella campagna di discredito che fu, in fatto, la premessa per l'esecuzione dell'attentato all'Addaura, mirato a colpire un magistrato in quello stesso momento vittima di una bieca attività di delegittimazione professionale e morale che non ha precedenti. Non si può dimenticare, infatti, che fin dai primi momenti successivi alla scoperta dell'ordigno destinato a esplodere nella scogliera antistante l'abitazione del magistrato palermitano (ordigno oggetto di una sconsiderata attività di distruzione che ha reso impossibile accertamenti plausibilmente rilevanti), venne messa in circolo, perfino da ambienti asseritamente impegnati nella lotta alla mafia, la voce che si fosse trattato di un finto attentato, in realtà addirittura organizzato in qualche modo dalla stessa vittima. Quella insulsa campagna diffamatoria (così stigmatizzata dalla Corte di cassazione: «infame linciaggio da parte di ambienti istituzionali, il cui unico scopo era la delegittimazione») proseguì per un tempo non breve e venne definitivamente accantonata solo quando Giovanni Falcone fu infine assassinato, nella strage di Capaci. In parallelo a quella campagna di delegittimazione di Falcone, nel processo celebratosi a Caltanissetta per l'attentato all'Addaura è stato accertato che vi fu anche una colpevole operazione mirata a sminuire l'enorme gravità del tentativo stragista, con la derubricazione di esso a un semplice atto minatorio, insuscettibile di pratici effetti, ad opera di autorevoli soggetti istituzionali quali Domenico Sica, al tempo capo dell'Alto commissariato antimafia, Francesco Misiani, magistrato addetto all'ufficio guidato dal dottor Sica, e Mario Mori, al tempo comandante del Gruppo Carabinieri di Palermo. Al riguardo, la sentenza emessa dalla Corte di cassazione il 19 ottobre 2004 è stata tranciante: «Resta il dato sconcertante che autorevoli personaggi pubblici, investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare, in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato». Simili anomalie che hanno avvolto l'attentato all'Addaura meritano tutta una serie di approfondimenti e un'adeguata ricostruzione in sede giudiziaria, anche in relazione al plausibile coinvolgimento nell'organizzazione del delitto, in concorso con l'organizzazione cosa nostra, anche di soggetti estranei alla stessa («le menti raffinatissime» di cui parlò fin dall'immediatezza lo stesso Falcone). Tanto più ciò va rilevato, in quanto la mancata uccisione di Giovanni Falcone all'Addaura fu la premessa dell'eclatante attentato compiuto a Capaci meno di tre anni dopo. Tuttavia, a proposito degli aloni di mistero che le istituzioni finora sono state incapaci di rimuovere, bisogna qui evocare un gravissimo delitto, tuttora impunito, commesso a brevissima distanza temporale dall'attentato all'Addaura. Il riferimento è al duplice omicidio che il 5 agosto 1989 vide vittime il poliziotto Antonino Agostino e la giovane moglie. Talune fonti acquisite dall'autorità giudiziaria hanno collegato tale delitto all'attentato all'Addaura, essendone stato in sostanza una conseguenza, per un qualche ruolo giocato dal poliziotto Agostino nello sventare l'agguato al dottor Falcone o per qualche notizia entrata in suo possesso al riguardo dello stesso episodio delittuoso. Sul punto l'autorità giudiziaria non ha raggiunto alcun risultato e questa Commissione parimenti non è in grado di esprimere una valutazione compiuta. Alcune precisazioni sono però doverose. Se sulle ragioni dell'assassinio del poliziotto Agostino e della moglie e sulla stessa identità di mandanti ed esecutori materiali in sede giudiziaria non è ancora stata trovata una risposta esauriente, con grado di certezza si può affermare che nell'immediatezza del duplice omicidio fu compiuta una sordida attività di depistaggio finalizzata, secondo quanto risultante da intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria, all'individuazione e alla sparizione di documenti custoditi riservatamente da Antonino Agostino. Di tali attività vanno valutate le responsabilità anche all'interno della stessa Polizia di Stato. Le attività d'indagine furono condotte con modalità sconcertanti, mirate all'individuazione di sconnesse causali ricollegabili alla vita privata del poliziotto ucciso, dalla Squadra mobile di Palermo diretta al tempo dal dottor Arnaldo La Barbera, protagonista - in via di verifica giudiziaria- anni dopo di altri e ancor più scandalosi depistaggi nell'ambito delle indagini sulla strage di via D'Amelio." Ed ancora, "Come detto, cosa nostra da tempo aveva in animo di uccidere il dottor Giovanni Falcone e in effetti nel giugno 1989 era passata all'esecuzione del delitto, non portata a termine per cause indipendenti dalla volontà degli uomini di cosa nostra. Dopo le riunioni della commissione provinciale e pure della commissione regionale di cosa nostra, intervenute alla fine del 1991, su cui bisognerebbe fare piena luce - luoghi, coperture e modalità organizzative - nuovamente l'organizzazione mafiosa passò alle fasi esecutive per l'eliminazione di colui che rappresentava uno dei due principali storici antagonisti. Tuttavia, va osservato che nei primi mesi del 1992 cosa nostra si determinò in un primo momento a procedere all'assassinio di Giovanni Falcone nella città di Roma, ove il magistrato operava ormai da un anno. Ad occuparsene furono chiamati esponenti di cosa nostra appartenenti alle famiglie dei mandamenti di Trapani (rispetto ai quali agiva già con ruolo di leader il boss Matteo Messina Denaro) e di Brancaccio (articolazione mafiosa diretta da Giuseppe Graviano e nella quale era diventato esponente rilevantissimo l'oggi collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza). Tuttavia, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo del 1992, come pacificamente accertato in sede giudiziaria, i killer vennero richiamati in Sicilia. Iniziarono a quel punto i preparativi che trovarono tragica riuscita il 23 maggio 1992 con l'attentato di Capaci, che rese vittime il dottor Giovanni Falcone, la moglie dottoressa Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta. Si trattò del delitto massimamente eclatante mai compiuto da cosa nostra, con modalità tali che l'hanno fatto definire da parte di alcuni dei suoi esecutori come «attentatuni». Della strage di Capaci si occuparono materialmente esponenti mafiosi dei mandamenti di San Giuseppe Jato, di Porta Nuova, di San Lorenzo, della Noce, di Brancaccio, con l'aggiunta di Pietro Rampulla (uomo d'onore della famiglia di Mistretta ma fortemente legato all'articolazione catanese di cosa nostra), il quale della strage fu l'artificiere, ovvero l'esperto tecnico-balistico. Al riguardo di Rampulla deve segnalarsi come si tratti di un soggetto che aveva avuto, al tempo della sua frequentazione all'Università di Messina, all'inizio degli anni Settanta, una militanza in frange violente di estrema destra, nel corso della quale Rampulla fu perfino sottoposto a processo e condannato definitivamente per episodi di violenza squadrista, in concorso con altri significativi esponenti di organizzazioni criminali calabresi e siciliane, fra i quali merita di essere citato il capo della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, Rosario Pio Cattafi. Va qui fatto un riferimento alle dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria da Giovanni Brusca, che della strage di Capaci fu il protagonista della fase esecutiva, essendo stato proprio lui a utilizzare il telecomando che provocò la spaventosa esplosione. Quel telecomando, infatti, per il tramite di Rampulla, fu procurato a Brusca dalla famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, in quel momento capeggiata dai boss Giuseppe Gullotti e Rosario Pio Cattafi, il quale ultimo, secondo plurime acquisizioni giudiziarie, ha avuto nel corso di decenni rapporti con apparati investigativi e di sicurezza. L'esecuzione della strage di Capaci, come detto, ebbe modalità sconvolgenti, con l'esplosione di un intero tratto autostradale. Il delitto avvenne in territorio del circondario del Tribunale di Palermo. La competenza per le indagini e i processi si radicò innanzi all'autorità giudiziaria di Caltanissetta, ai sensi dell'art. 11 c.p.p.. Non, però, in relazione alla figura di Giovanni Falcone, che già da tempo non era magistrato in servizio nel distretto di Corte di appello di Palermo, bensì in relazione alla figura di Francesca Morvillo, magistrato in servizio presso la Corte di appello di Palermo. Alla data della strage di Capaci il procedimento presso il Consiglio superiore della magistratura per la nomina del capo della Procura della Repubblica di Caltanissetta, in sostituzione del precedente dirigente, assegnato ad altro incarico, era in itinere. Il 26 maggio 1992 il plenum del Consiglio superiore della magistratura deliberò la nomina del dottor Giovanni Tinebra, che si insediò all'inizio del successivo mese di luglio. La strage di Capaci ebbe effetto sicuro anche nella delicata fase politica, che in quel momento vedeva, già da tempo, il Parlamento riunito in seduta comune per l'elezione del Presidente della Repubblica. È certo che l'esecuzione della strage di Capaci, tra le altre mire dell'organizzazione cosa nostra, ebbe anche quella di rendere impraticabile l'elezione al Quirinale del senatore Giulio Andreotti. In effetti, le determinazioni del Parlamento subirono certamente una obiettiva turbativa per effetto della strage di Capaci, tanto che si giunse in breve a un accordo politico che portò il 25 maggio 1992 all'elezione del Presidente Oscar Luigi Scalfaro. E ' un dato giudiziariamente, storicamente e politicamente accertato che il Presidente Scalfaro aveva, fin dai tempi in cui quest'ultimo aveva svolto il ruolo di Ministro dell'interno, un rapporto personale di carattere estremamente fiduciario con il prefetto Vincenzo Parisi, già al vertice del Sisde e nel maggio 1992 Capo della Polizia. Il dato, sintomatico di un canale diretto e informale fra il Capo dello Stato e il vertice di uno degli apparati investigativi, è oltremodo significativo, in relazione a un periodo di transizione politica quale fu il biennio 1992-94, nel corso del quale le linee ufficiali delle strutture del potere lasciarono il passo a equilibri di natura sostanziale, non codificati", si chiede di sapere: se il Ministro in indirizzo intenda pubblicare i dati, le notizie e le informazioni a disposizione del Dicastero e del Governo che, all'indomani della strage di Capaci, condussero il capo della Polizia a delineare un quadro di significative convergenze operative tra Cosa nostra ed ambienti dell'eversione di destra; se intenda supportare, per quanto di competenza, la completa digitalizzazione degli atti processuali comunque riferibili alle stragi, compresi i contenuti dei fascicoli archiviati dalle Direzione distrettuale antimafia competenti, facendosi promotore anche degli eventuali necessari interventi normativi, perché la società italiana sia posta in condizione di conoscere e di valutare ogni fatto e circostanza comunque giunta al vaglio delle autorità; se intenda promuovere ogni azione conseguente, anche sul piano internazionale, di intesa con i Dicasteri interessati dei Paesi, che possano conservare atti o notizie sulle stragi del 92-94, e in particolare gli USA, Israele, Francia, Regno Unito e Germania, per ottenere la trasmissione dei documenti in loro possesso.

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