Riflessione sulla lentezza della giustizia di Renato Scalia

La giustizia continua a muoversi come un bradipo.
Ieri i miei colleghi della Direzione investigativa antimafia di Firenze e Bologna, insieme ai Carabinieri di Modena, Reggio Emilia e Crotone, sotto il coordinamento e l’impulso della Procura distrettuale di Bologna, hanno eseguito la confisca di 13 milioni di euro ad esponenti di primo piano della ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
Il provvedimento, emanato dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Emilia, è scaturito dalla ormai famosa  Operazione “AEMILIA”, che ha permesso di disvelare quel mondo di sotto e di mezzo, creato in Emilia dalla 'ndrina cutrese Grande Aracri.
La confisca è stato emessa nei confronti di 4 fratelli, tutti originari della provincia di Crotone, Nicolino, Gianluigi e Carmine Sarcone, attualmente detenuti quali esponenti di vertice del sodalizio ‘ndranghetistico emiliano, e Giuseppe Sarcone Grande.
Questo decreto di confisca però mi fa riflettere, ancora una volta, sul gravissimo problema della lentezza della giustizia.
Ho concluso la mia carriera in Polizia nel Centro operativo DIA di Firenze e conosco molto bene gli 'ndranghetisti colpiti dal provvedimento e allora mi chiedo: perché per arrivare al primo grado di giudizio di confisca ci sono voluti, se non ricordo male, ben oltre 5 anni?
A proposito di “mondo di mezzo”, proprio in questi giorni, Massimo Carminati è stato scarcerato per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva.
E' normale che un detenuto pericoloso come Carminati - ex appartenente ai Nar (Nuclei Armati rivoluzionari, gruppo eversivo d'ispirazione neofascista), in seguito legatosi all'organizzazione criminale romana Banda della Magliana, infine arrestato nel 2014 nell'ambito della famosa inchiesta “mafia Capitale - possa essere scarcerato per motivi di forma?
Vogliamo parlare, poi, del processo contro il clan  Terracciano, organizzazione camorristica che da anni ha messo le proprie radici in Toscana?
A gennaio 2019, nel palazzo di Giustizia di Firenze, il processo veniva rinviato ad aprile 2019 a causa di “errori di notifiche”, anche agli imputati.
La cosa gravissima che riguarda questa vicenda, non  è tanto l'errore di notifica commesso nella prima udienza del processo, da molti definito “maxi” con i suoi 52 imputati e oltre 350 testimoni, ma il fatto che lo stesso iniziava ben 10 anni dopo la conclusione delle indagini. Fatto gravissimo questo.
Insomma, è proprio il caso di dirlo, la giustizia italiana si muove proprio come l'animale più lento al mondo, il bradipo.
Allora nascono spontanee altre due semplici domande:
La colpa è dei magistrati?
La colpa è della politica?
Sono anni che molti cittadini chiedono la “certezza della pena”, ma, di fatto, questo concetto continua a essere un pensiero utopico.
E’ evidente a tutti che il sistema penale continua a essere in gravissima sofferenza.
Il numero dei reati è elevatissimo ma le pene che si scontano, in troppi casi, sono insufficienti o, addirittura, del tutto inesistenti.
Stendiamo un velo pietoso su questi ultimi mesi, ovvero, sulla decisione di mettere alla detenzione o arresti domiciliari un numero spropositato di criminali mafiosi di altissimo spessore.
Una cosa, però, va sottolineata nuovamente: una scarcerazione di massa di questa portata non c'era mai stata.
Il quadro non è certo rassicurante.
Il magistrato che commette errori, continua a rimanere impunito. Male che vada, rischia un trasferimento di sede.
Sono anni, poi, che si parla di una riforma che semplifichi tutto il sistema penale, ma nulla si vede all'orizzonte.
E allora è chiaro che, in caso di errori giudiziari,  c'è sicuramente una responsabilità dei magistrati ma è anche vero che la responsabilità della politica non è da meno.
Stiamo ancora aspettando una riforma che, finalmente, velocizzi il processo penale e civile.
Manca la volontà e la capacità di porre rimedio a tutto questo disastro.
E a pagarne le conseguenze, come solitamente accade, sono i cittadini.
Sulla capacità, in generale, non si può fare a meno di fare  l'esempio del  maxiprocesso per antonomasia, quello di Palermo contro cosa nostra, portato sino a conclusione dai  giudici istruttori, scelti da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello.
Vediamo i numeri di quel processo - probabilmente il più grande processo penale mai celebrato al mondo - tenendo bene a mente quelli che riguardano il sopracitato processo che si celebrerà a Firenze contro i Terracciano.
Maxiprocesso di Palermo contro l'organizzazione criminale cosa nostra, per i delitti di associazione mafiosa, oltre 600 omicidi, traffico di stupefacenti, estorsione e altri reati.
In primo grado gli imputati erano 475, poi scesi a 460 nel corso del processo, con circa 200 avvocati difensori, e si concluse con le seguenti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Le condanne furono quasi tutte confermate dalla Cassazione.
Il processo iniziò il 10 febbraio 1986 e si concluse in Cassazione il 30 gennaio 1992.
Numeri pazzeschi, incredibili, ma dopo meno di sei anni arrivarono le condanne definitive.
Avete capito bene, tutto l'iter si è concluso in 6 anni.
La capacità e la volontà.
Se torniamo in Toscana, invece, mi torna in mente un processo contro un usuraio e al fatto che ci sono voluti ben otto anni per arrivare ad una condanna  in primo grado.
Falcone e Borsellino hanno sacrificato, in tutti i sensi, la propria vita, per una lotta senza tregua contro cosa nostra.
Uccisi loro, la mafia si è ingigantita, si è evoluta e lo stiamo vedendo anche in questi giorni.
C'è tanto da fare per rimettere in sesto la giustizia italiana ma, senza volontà e capacità, sarà difficile raggiungere un risultato soddisfacente.
“Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il proprio dovere.”
E' il pensiero di Giovanni Falcone trucidato il 23 maggio 1992, nell'attentato di Capaci, dove morirono anche la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Appunto, “basta che ognuno faccia il proprio dovere”. 

20 giugno 2020
RS

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